Era una notte mite, in una stagione rigida e l’orologio analogico, appeso nella mia cucina, segnava le 2:30, circa.
Riuscivo ad intravedere il cielo per niente stellato, seduto comodamente sulla mia poltrona.
Quella non era una notte fatta per dormire, qualcosa me lo stava sussurrando negli orecchi, nonostante le mie palpebre, ogni tanto, cercassero di emulare le gesta delle saracinesche dei negozi di alimentari, il giovedì pomeriggio.
I bambini dormivano beati e Rachele si era impadronita di tutto il nostro giaciglio.
La sentivo sospirare dolcemente dalla camera da letto.
Io ero lì, sospeso tra palazzi dormienti, stelle nascoste e una luna spenta. Non avevo voglia di leggere nulla, di guardare nulla, di ascoltare nulla.
Volevo solo che quell’istante si dilatasse nel tempo, come una calza, prima di smagliarsi.
E mentre i miei occhi combattevano contro la stanchezza, una vibrazione fece svanire il mio flusso di pensieri e i miei occhi si diressero, senza appello, verso lo schermo del mio cellulare che, con prepotenza, decideva di cambiare la mia vita.
Pronto?
«Salve, parlo con il Signor Inconsueto?»
«Sì, sono io.»
«Lei è il figlio della Signora Gentile?»
«Sì, sono io.»
«Volevo comunicarle che possiamo proporle un preventivo concorrenziale per la sepoltura di sua madre.»
«Mia madre? Ma lei chi è? Mia madre è deceduta?»
«Sì.»
«Quando?»
«Circa 30 minuti fa.»
Allontanai il telefono dal mio viso, come si allontana uno schiaffo che ci colpisce sulla guancia. Uno schiaffo che ferisce il viso, la mente, il cuore.
Tasto rosso. La comunicazione era terminata.
Non feci nulla.
Restai inerme, stringendo il cellulare nel mio pugno, senza rendermene conto, come a volerlo strozzare per togliergli il respiro e ucciderlo, punirlo.
Non piansi, ma le lacrime rigavano ugualmente il mio viso e capii che, da quel giorno, avrei guardato tutto con occhi diversi.
Il sole cominciava ad illuminare la città e sentivo che nelle altre stanze le coscienze, le menti e i giovani sorrisi, cominciavano a tornare da me. E la cosa non mi faceva piacere quel giorno. Quel maledetto giorno oscuro.
Mia madre era stata il calore nelle fredde giornate invernali, era le mani callose e rugose che mi accarezzavano da sempre, gli occhi gialli e buoni che rappresentavano un ponte con l’amore infinito e totalizzante, che solo lei sapeva generare.
Mia madre era sapienza, abbracci, profumo di dolce, di nutrimento, di protezione. Mia madre era la parte buona che c’era nel mondo e ora era andata via, non si sa bene come, da sola, senza di me. Senza una carezza che la tranquillizzasse.
Dovevo attendere il momento giusto per raccontare ai miei figli che la loro nonna non c’era più. Per proteggerli dalla sofferenza, mentre il mio cuore straripava di un dolore pungente, inedito, insopportabile.
Ma prima dovevo andare da lei e capire se quella voce sconosciuta mi aveva svelato una terribile verità, oppure se si trattava di un terribile scherzo.
Mi alzai, misi le scarpe e il cappotto, presi le chiavi della mia auto e uscii di casa.
Faceva freddo, ma il freddo ero io, perché quel giorno il sole sarebbe stato particolarmente generoso, in modo incoerente.
Varcai presto, tra tutte quelle onde di dolore, la soglia della clinica.
Nessuno era lì ad attendermi, quindi mi diressi verso la stanza dove mia madre aveva vissuto gli ultimi mesi, sperando di trovarla lì a sorridermi e a chiedermi come mai fossi andato così presto a trovarla.
Socchiusi gli occhi, prima di entrare, come per voler oscurare l’orrenda verità.
Il letto era disfatto, mia madre non era lì e un inserviente si apprestava a lavare via ogni segno lei, affinché il prossimo ospite non ne scrutasse il passaggio.
«Chi è lei? Non è orario di visite questo!»
«Salve, sono Marco. Mi chiamo Marco Inconsueto e sono il figlio della Signora Gentile.»
«Chi è questa? Senta lei non può stare qui, punto e basta.»
Quest’uomo avrebbe potuto costruire un intero quartiere con la sua maleducazione, eppure non reagii come avrei fatto in un altro giorno. In un qualsiasi altro giorno.
Non riuscivo a parlare, mi tramava la voce.
«Sono il figlio della Signora che era qui prima. Avrei bisogno di sapere dov’è mia madre.»
Il mio interlocutore diventò subito paonazzo.
«Ah, lei è il figlio. Senta, qui, nella stanza accanto, c’è il dottore, parli con lui.»
«Ok, grazie.»
Il dottore in effetti era nella stanza accanto e sembrava stanco, scocciato, mentre compilava scartoffie e sorseggiava un caffè.
«Buongiorno dottore, si ricorda di me? Sono Marco, il figlio della Signora Gentile.»
«Ah, è già qui?»
«Sì, io questa notte ho ricevuto una…»
«Ma come questa notte? Avevo chiesto all’infermiera di avvisarla questa mattina presto!»
«Non è stata l’infermiera a chiamarmi, salvo che non volesse propormi un rito funebre per mia madre.»
«Senta, io non ne voglio sapere nulla, io sono un medico e non so che succede qui di notte. Vuole sapere cosa è successo a sua madre, immagino.»
«Sì, mi scusi.»
«Bene, sua madre ha avuto un ictus, non ha sofferto. Non potevamo prevederlo e non abbiamo potuto fare nulla per salvarla. Se vuole vederla l’abbiamo trasferita in obitorio, questa notte. Mi dispiace tanto, mi creda.»
Mi piegai su me stesso. Appoggiai la schiena al muro e lasciai che il mio corpo scivolasse giù, a poco a poco. La mia testa era tra le mie mani e le mie mani tra le mie gambe. I miei capelli erano tormentati dalle mie dita e le mie dita dai miei denti. Il mio cuore era nell’obitorio, i miei occhi sul pavimento, il mio fegato dava i numeri e lo stomaco si tormentava. La mia voce era spenta, le mie parole si erano rotte, la mia pelle era infiammata e la mia barba mi proteggeva dall’olezzo di ribrezzo che avvolgeva quella struttura. La mia mente stava compiendo una moltitudine infinita di viaggi nel tempo, solo per ricostruire mia madre, me come figlio, le domeniche mattina, i litigi, gli abbracci, le grida, i pianti, i sorrisi, i sapori, i profumi, i sacrifici di lei per me.
«Ha bisogno di un bicchiere d’acqua?»
«Cosa?»
«Un bicchiere d’acqua?»
«Scusi, non la capisco.»
Qualcuno, una giovane infermiera, mi chiedeva se volessi abbeverarmi.
«No, grazie. Può dirmi, per favore, dove trovo l’obitorio?»
«Sì, ma posso accompagnarla, non credo sia il caso che lei ci vada da solo.»
Non protestai, non volevo andare lì da solo, ma non avrei voluto che ci fosse Rachele con me, in quel momento. Avevo bisogno di una sconosciuta perché stavo per diventare un bambino lasciato solo a casa, che ha paura del buio.
L’infermiera cominciò a camminare, io la seguivo. I suoi passi erano corti, ma veloci. I mei lunghi e affannati.
«Sa, io lavoro qui da pochi giorni, ma ho sentito che lei è il figlio della Signora Gentile. L’ho conosciuta due giorni fa e ha subito capito che non erano dei giorni facili per me, ho appena firmato per il divorzio e lei, pur non conoscendomi, mi ha rassicurata, mi ha accarezzato la mano e mi ha sorriso.»
«Mia mamma era così. Era la madre, non solo mia madre.»
Si fermò, prima di varcare una porta.
«Sua mamma è qui, l’ho sistemata io, con premura, ieri notte.»
Mi bloccai, non riuscivo ad entrare in quella stanza. L’infermiera comprese la mia difficoltà, mi prese la mano e mi portò da lei. La guardai ed era pallida, fredda, non c’era più, ma tra le sue mani potevo ancora scorgere i calli delle 3122 pizze di patate che mi aveva preparato, delle verdure grigliate, delle fritture miste, dei panzerotti, del ragù. Sul suo viso c’erano i segni di tutte le volte che l’avevo fatta preoccupare, arrabbiare, piangere e sorridere e ridere. Sui suoi capelli c’erano tutti i mei anni.
Ma lei non c’era più.
Mentre ero lì a cercare l’immagine più bella di lei, per poterla incorniciare nei miei ricordi, scorsi una figura oscura aggirarsi tra i locali dell’obitorio. Lo seguii, in silenzio, d’istinto. Non si accorse della mia presenza.
Lo osservai, era in una stanza, nei pressi di un cadavere.
In mano il suo telefono.
«Salve, volevo proporle un servizio funebre dal costo concorrenziale.»
Sulla sua giacca il logo di un’impresa funebre molto nota in città. Sul suo volto le occhiaie di chi non aveva chiuso occhio quella notte.
Mi avvicinai a lui, mentre era ancora intento a concludere la telefonata.
«Lei mi fa schifo.»
«Ma chi è lei?»
Girai i tacchi e tornai indietro.
La giovane infermiera era rimasta lì, inerme, ad osservare la scena.
Non mi chiese nulla.
Tornammo indietro in silenzio.
Giunti nei pressi dell’uscita dalla clinica, mi salutò e poi aggiunse:Non se ne faccia un cruccio, c’è chi non comprende il significato dell’essere umano. Non sappiamo bene come sia possibile e chi permetta questo scempio, ma spesso l’illegalità e l’irriverenza intervengono a gamba tesa, in cerca di denaro, senza conoscere il vero significato del concetto di partecipazione. Di dolore, di silenzio.
Sorrisi gentilmente e la salutai.
Mia madre era andata via, ma mi aveva lasciato la forza per sorridere, per proseguire, per preparare il suo saluto. La forza immensa che avrei dovuto usare per dire ai suoi nipoti che non avrebbero più potuto assaggiare la torta di mele della nonna, quella che sapeva di buono e di compiti a casa, finiti in tempo.
Il mio cellulare squillò di nuovo.
«Amore, dove sei? È successo qualcosa?»
«Tranquilla, sto tornando a casa, prepara i bambini. Oggi non si va a scuola, oggi prepariamo assieme una torta di mele.»